Puff

-Racconto illustrato-

(con A.I. e tecnologie chatGPT4 DALL-E 3.0)

"Puff" è la voce imitativa del rumore della caduta di un corpo attutita dall'acqua o da una superficie soffice; ma è esattamente il contrario di ciò che ha trovato, alla sua fine, il protagonista della storia a seguire: nulla di morbido. "Puff" è, in realtà, il nomignolo con il quale era solito rivolgersi alla sua "femme fatale". Questa è la storia di un amore adolescenziale. L'amore adolescenziale, spesso definito come il "primo grande amore", è un'esperienza intensa e formativa. È caratterizzato da una serie di emozioni forti e talvolta contrastanti, come l'euforia e la vulnerabilità. Questo tipo di amore può essere descritto come:

"Innocente": spesso è la prima esperienza di sentimenti romantici profondi, quindi è privo delle complessità delle relazioni adulte.

"Passionale": gli ormoni e la novità dell'esperienza possono rendere l'intensità dei sentimenti particolarmente forte.

"Idealistico": gli adolescenti possono idealizzare il partner o la relazione, immaginandola perfetta o destinata a durare per sempre.

"Formativo": può influenzare le future relazioni amorose, insegnando cosa si desidera o non si desidera in un partner. 

Inoltre, questo tipo di amore è un passaggio cruciale nel percorso di crescita personale e spesso lascia ricordi duraturi.


"Introduzione"

-Ingresso, già quasi uscita-

Guardavo il vuoto davanti e dentro me, avevano lo stesso identico colore. Tu eri, ormai, una massa grigia e informe di ricordi, di senso di impotenza, di solitudine. “Non mi cercare, ti cercherò io quando avrò capito”, avevi detto alla fine dell'ultima telefonata; ma dopo una sola settimana di te non c’era dì già più traccia. Io capivo solo di averti persa per sempre e che nulla avrebbe potuto inserirsi tra me e la tua decisione, nulla avrebbe potuto modificarla.

Mi tormentavo pensando che la nostra panchina, il nostro treno della domenica pomeriggio, il nostro viale, fossero ancora lì; come erano lì le 16:30 per chiamarti durante la settimana, il cielo del tramonto oltre i vetri appannati della cabina telefonica, il suono della tua voce e dei silenzi che cadevano giù dalla cornetta del telefono, le mie camminate notturne nella nebbia per cercare una cabina vuota e chiamarti.

 Era ancora lì la transenna su cui mi sedevo ad aspettare che scendessi, sotto casa tua, e la panchina del nostro primo bacio e del nostro ultimo giorno.

"I ricordi arrivavano come cani sciolti, si aggrappavano dilaniando la mia mente alla ricerca di un perché, degli errori commessi..."

Era tutto immobile in attesa di un cambiamento che non sarebbe mai più arrivato. E io impotente ad aspettare, immerso nel vuoto, bloccato per sempre nel tempo, con un disco rotto che, sembrava farlo apposta, saltava all’inizio da ore e mi ripeteva quella che avevamo deciso essere la nostra canzone, la colonna sonora per una vita. I ricordi arrivavano come cani sciolti, si aggrappavano dilaniando la mia mente alla ricerca di un perché, degli errori commessi; un tempo ero io il più forte, non mi facevo vedere per giorni ed ero io a tornare solo se volevo. Ma il tuo seme era già presente in me e lo capivo dal fatto che mi mancavi in modo irragionevole ogni volta che ti lasciavo, dopo neanche un giorno. Quando sono diventato quello che speravi, si sono ribaltate le cose: vivevo in un mondo surreale, pregavo qualunque cosa affinché non mi lasciassi, perché non finisse, anche i pali della luce. Ti immaginavo vivere circondata dalla tua vita senza di me, magari con un altro... ne avresti potuti avere più di quanti tu stessa potessi immaginare, ti sarebbe bastato alzare una mano... Non eri bellissima, certamente, ma avevi più di una sfumatura che ti rendevano speciale: la tua camminata, per esempio, ti conferiva una grazia unica, ondeggiando in modo ritmico i fianchi, richiamavi alla mente cose che qui non posso dire, o i tuoi occhi di un nero così profondo da trascinarmi in un buio assoluto, sospeso e fluttuante nella sensazione di vuoto che mi procuravano, se mi osservavi a lungo; e poi ancora, i tuoi capelli corvini che sembravano scolpiti da uno scultore surrealista, a tratti eri arruffata come chi ha appena fatto l’amore, come chi ha smesso di preoccuparsi; avrei passato ore a guardare la tua bocca, mentre parlavi, alternare un timido accarezzare i denti bianchissimi e, un attimo dopo, l'esplosione nel tuo sorriso. Tutto parlava in qualche modo di te, di quello che avevi dentro, si doveva solo imparare a leggerti. Ma non sono riuscito a farlo in tempo neppure io, troppo preso dal cercare di impedirti, con la mia presenza, che tu cadessi tra le braccia di qualcun altro e alla fine ti ci ho messa io...

"Memory 1"

-E' strano iniziare dalla fine-

Ricordo la sera di un martedì grasso, il 15 Febbraio. Durante il giorno la nebbia aveva mantenuto la temperatura intorno ai tre gradi e ci si approssimava alla minima di -5: c'era da battere i denti appena aperta la bocca. Eravamo d’accordo che saremmo usciti con la compagnia per una pizza, ci saremmo visti direttamente nel locale. Non era proprio una pizzeria, era piuttosto un bar che serviva anche pizze, solo la sera, a due passi dalla stazione dei pullman, ma era diventato un locale per giovani anche perché con sole 10.000 Lire (circa 5 €) potevi consumare pizza margherita e acqua per due e non si pagava il coperto. Servivano la pizza su taglieri di legno, i tovaglioli erano di carta, i bicchieri e le posate di plastica. Avevo già scritto il nome del locale nella mia lista nera, per un primo bacio a una ragazza rovinato dal titolare. Era appoggiata al jukebox mentre, anche in quel frangente, suonava quella che sarebbe diventata la nostra canzone - a quel tempo si usava adottarne una - e non mi ero reso conto di essere in pubblico. Solo un tenero bacio, ma al proprietario del bar non era piaciuto “l’atto osceno” e ci cacciò dal locale - "queste porcherie andate a farle fuori di qui!", ci apostrofò -, non ci fece neppure finire la canzone! Quindi non ero felice di andare lì, ma decisero gli altri anche per me. Mi ero attardato un po’ in studio, inoltre ero passato nel negozio di articoli regalo a prenderti un peluche; non era una nostra ricorrenza e dovevi averne già a decine, in effetti non era sembrata una cosa sensata. Ma lo era dal punto di vista obbediente al disegno che avevo creato per difenderti dagli attacchi della noia, o per mantenere vivo il tuo interesse... insomma, uno stratagemma, un tentativo di appello a quella tenerezza che non riuscivo più a evocare negli utlimi tempi. Era come se un peluche potesse trattenerti a me come un amuleto magico. La verità era che avvertivo implacabile la trasformazione in atto di quello che provavi per me e, quello che intuivo stesse diventando, non mi piaceva affatto. Ogni volta che ti osservavo muoverti nella mia mente, diventavi un puntino sempre più piccolo e, dalle oceaniche distanze da cui ti guardavo curiosare nei miei pensieri, non potevo certo fare qualcosa per avvicinarti, ti guardavo scomparire sempre di più. Arrivai che eravate già tutti a tavola, dovetti far spostare qualcuno per sedermi più vicino a te. Eri seduta al fianco di uno sconosciuto che non sapevo che ci sarebbe stato, non mi avevi detto nulla, ma mi aveva fatto più male che non mi avessi tenuto un posto accanto a te. Eri troppo distratta dalla sua presenza, forse? Era stata la prima martellata, non ne capivo il senso; fino a quel momento, almeno di questo, ero sicuro: se ti fossi innamorata di qualcun altro me lo avresti detto subito, ma certamente non così, non mettendomi faccia a faccia col mio rivale... non me lo avresti mai fatto... e poi non eri infedele, no... almeno credo. Mi avevi detto che era un tuo compagno di scuola che “era solo, poverino, così l’ho invitato a passare la sera con noi”. Ma da maschio riconosci subito l’atteggiamento di chi vuole sedurre una ragazza e voi non sembravate affatto solo compagni di scuola.

 Più avanti, durante la cena, lui si era impossessato del mio peluche e tu lo lasciavi accarezzarlo, come se stesse accarezzando te. Ero accecato dalla rabbia e dalla gelosia, quegli sguardi furtivi che vi scambiavate, cercando poi di scrutare il mio stato d’animo nei miei, bruciavano come fuoco, specialmente fatti da te che non mi hai rivolto parola per tutta le cena. L’unica arma, ancora una volta, era importi la mia presenza fino a che non se ne sarebbe andato: presente io, sarebbe successo nulla. Ma domani? Io non ero certo a scuola con te e il tempo libero per me era poco. Avresti potuto fare ciò che volevi in ogni momento della giornata; la telefonata pomeridiana non era certo un dissuasore, tante volte non t’avevo trovata, eri in giro da sola e non avrei potuto raggiungerti ogni volta. Ma non avevo mai avuto dubbi sul fatto che, se avessi potuto, mi avresti incontrato. Qualche volta lasciai lo studio per raggiungerti, il vederti anche solo mezz’ora era come rabboccare un serbatoio perennemente a secco della tua presenza. Portammo il tuo amico al treno prima dell’inizio della consueta sfilata notturna dei carri allegorici. Il fatto che fosse venuto già dal primo pomeriggio, forse con te, e che tornasse in città prima dell’evento della serata - mi hai detto che era venuto per quello, no? - rafforzava la mia sensazione che qualcosa tra di voi stava muovendosi e che vi avevo appena rovinato la serata. A distanza di così tanto tempo, non ricordo se in compagnia fossero certi della mia presenza quella sera, sovente mancavo alle uscite per via del mio lavoro: avrei potuto anche essere la sorpresa dell’ultimo minuto. Mettiamo, per dovere di cronaca, che mi aspettassero, così rendiamo le cose più semplici e... meno dolorose da ricordare, perché avrei dovuto aggiungere anche la classica sorpresa di chi torna a casa non atteso. 

Non ci siamo goduti certo la serata, lo stato d’animo alterato di entrambi, ognuno tra sé e sé, ha fatto il resto. Hai ritratto la mano più di una volta camminando e chiederti cosa c’era che non andava, mi ridicolizzava ancora di più. Sapevo benissimo cosa ci fosse a non andare: per me eravate voi due, per te ero ovviamente io. Ci eravamo separati dal resto della compagnia subito dopo l’uscita della pizzeria; un banale saluto - troppo banale per essere vero - al tuo amico diretto alla stazione e abbiamo camminato verso il centro lungo la via buia, con pochi lampioni per lo più coperti da alti alberi che sfiorano le finestre dei palazzi, tra ventate improvvise che ti scompigliavano i capelli; io ti vedevo bellissima, tu reagivi nervosa e infastidita e ogni volta che desideravo fermarti e tirarti a me per stringerti, sembrava che leggessi nei miei pensieri, ti ritraevi. Sentivo solo che stavo sprofondando nelle sabbie mobili della fine. Non lo avevi mai fatto prima, anzi, una volta si...

"Memory 2"

-Doppio salto all’indietro-

(Primo salto) 

Avevamo trascorso la serata insieme, con un’altra coppia della compagnia. L’altra ragazza era la tua migliore amica, lui non era altrettanto per me: lo tolleravo e basta, pure a fatica. Credo di non aver mai avuto un migliore amico, avevo amici e basta e qualcuno da frequentare più di altri. In quel periodo ero grato a uno di quelli che frequentavo di più, l’amico-vicino-di-casa (da ora in poi questo sarà il suo nome, ricorrerà ancora nel racconto), per avermi dato la possibilità di conoscerti. Proprio quell’estate avevo finito il ciclo di scuole superiori; ero arrivato da pochi anni da un paese remoto, causa trasferimento con tutta la famiglia, il che faceva di me un perfetto sconosciuto in terra straniera: non conoscevo altri che i compagni di classe, stranamente tutti provenivano da paesi circostanti, ma difficilmente raggiungibili in treno o pullman oltre orario scolastico e il cinquantino era sempre a secco, come le mie tasche. Con l’arrivo del monomarcia, visto che ho parlato di lui, era arrivata anche la libertà. Ricordo che con 4000 Lire di miscela al 2%, girovagavo per una settimana in paese: quei soldi uscivano solo dalle tasche di mia madre; da quelle di mio padre, semmai, uscivano le mani con cui menava schiaffoni. Così, delle 5000 Lire, avanzava ben poco, giusto un paio di ghiaccioli. Avevo bisogno di un lavoro... Tornando a noi due (strano definirci ancora noi), finita la scuola, ero rimasto socialmente appiedato; le possibilità che qualcuno dei compagni di scuola mi raggiungesse qui, o io raggiungessi loro lì e là, erano esigue. Per fortuna c’era sempre l’amico-vicino-di- casa. Anche lui aveva terminato le superiori un mese prima e mi inserì, anzi, ci inserì in una compagnia di suoi vecchi compagni di scuola e di infanzia. Anche lui, prima di allora, non li aveva mai frequentati nella loro compagnia, tutti insieme, e non conosceva tutti e tutte e questo, devo dire, mi piaceva, mi rilassava di più, perché qualcosa era comune per entrambi: non conoscere nessuno, a quell’età, può diventare drammatico. Dopo poche uscite, mi ero già accorto di te. Non era stata una cosa difficile, ti evidenziava il comportamento degli altri ragazzi della compagnia che cercavano insistentemente di abbordarti: sembrava l’attività preferita nel gruppo. Li guardavo più o meno come li guardavi tu, con un leggibile senso di imbarazzo negli occhi che volgevi già verso di me - e almeno quegli sguardi erano solo miei, solo per me - quasi come per scusarti dei loro modi rocamboleschi di corteggiarti; un po’ mi divertivano, certo più che a te. La prima domenica insieme. Il luna park. Una domenica immersa in un caldo torrido già a fine giugno, con la massima di 30 gradi e l'umidità ben oltre il 40%, non una nuvola in cielo e un venticello caldo che non avrebbe potuto neppure spegnere una candela. Era il 27. Naturalmente avevo sbagliato abbigliamento, al mattino mi era piaciuta l’idea del gilet celeste sopra la camicia e i pantaloni bianchi, e forse ero piaciuto anche a te: in effetti mi ero già agghindato davanti allo specchio come se ci fossi tu a guardarmi da dietro e me lo sarei meritato; ma faceva davvero un gran caldo e sudare poteva diventare sgradevole. Pensavo di fare un giro su qualche giostra che sventolasse un po’... guardavo te, guardavo gli altri chiederti di salire con loro su una giostra, di andare a fare un giro da soli, e poi di nuovo te dire di no, sempre di no, e di nuovo te, sempre te. Ormai ti conoscevo nei più piccoli dettagli, mi mancava solo quello che tenevi coperto (...). 

Mi sono avvicinato a te che era quasi ora di rientrare, per tutti - la cosa bella di quelle compagnie era che avevamo tutti gli stessi limiti orari - per chiederti di non lasciarmi sprecare una manciata di gettoni degli autoscontri, ovvero se avresti fatto un paio di giri con me. Dopo tutti quei no me ne aspettavo uno anch’io, visto che li elargivi a profusione. Invece mi hai guardato e mi hai detto subito di si. Mi hai fatto uno sguardo che, più che ammagliato, ricordava un “era ora! Ma quanto ci hai messo?” e ti sei diretta verso il carrozzone. Siamo saliti sulla macchinetta, hai voluto che guidassi io, mi sembrava di essere in auto, coppia fatta. Ho evitato il più possibile di scontrarmi con le altre, in modo improprio per un giro in autoscontro, per non scompigliarti i capelli. Sentivo il tuo profumo, ricordo il suo nome ancora adesso, probabilmente anche i tuoi feromoni avevano intriso l’aria che respiravo; potevo passarti un braccio sulle spalle, una mano sulla gamba, sfiorarti i capelli, mi stavi lasciando fare. Ma non volevo esagerare. 

Ci siamo visti anche le sere successive, per tre volte. L’ultima sera, il 30, mettendo insieme quanti più elementi potessi per pesare la situazione - ho sempre temuto i rifiuti - ho preso il mio coraggio e te, vi ho portati in disparte e te l’ho tirato addosso: “tu mi piaci”, una parola per ognuna delle sere che ho passato a studiare i tuoi sguardi per interpretare le tue intenzioni. Anche tu mi hai tirato addosso il tuo “e hai bisogno di un oculista” è stata la tua risposta a una frase che, propriamente, non voleva essere una domanda, ma un’affermazione e basta. Sai che mi avevi già mandato all’aria buona parte delle mie sicurezze? Infatti, non essendomi preparato nulla di riserva, sono solo riuscito a dirti “Ok, ho sbagliato tutto” e tu che mandi in frantumi anche la mia dignità di sconfitto dicendomi “non hai sbagliato niente, ne parliamo domani”.

Ancora tempo torrido, ma di giovedì, luglio. L’1. Avevo le occhiaie, non avevo dormito pensando-ti, non per altro (a parte ovviamente per i trenta gradi in camera mia). La via principale, ti incontro, sarà la presenza dell’amico-vicino-di-casa, ma non mi parli, non affronti l’argomento, non prendi il discorso, stai con l’altra ragazza, la tua migliore amica. La panchina è testimone del fatto che eravamo pericolosamente vicini a casa tua, ma nessuno pareva preoccuparsene più di tanto. Noi ci sediamo, gli amici sembrano aver capito e vanno oltre... la situazione si faceva difficile, tu non sapevi come iniziare, e non iniziavi, c’era un bel niente che iniziava. Ma tranquilla, neppure io. Allora prendo il pacchetto di Marlboro da sotto la camicia, sopra la spalla - si usava così - pensavo di accenderne una, ma il tuo sguardo mi ha spento l’accendino. Mi sono avvicinato al tuo viso, alla tua bocca e, nel momento in cui hai chiuso gli occhi, tra le nostre bocche ho messo il pacchetto di sigarette... Uno scherzo, sicuramente di pessimo gusto, per spezzare la tensione. Poi il bacio è arrivato.

Occhio a quella panchina, dopo 270 giorni sei scesa e mi ci hai abbandonato su.

(Secondo salto) 

 Un mese in cui abbiamo consumato le scarpe a suon di vasche. D’estate che vuoi, chiuderti in un cinema senza aria condizionata? Fuori fa caldo, afa, zanzare, e tu che mi fai scoprire che alle zanzare il giallo del tuo vestito piace, e piace anche a me, ti scopre le gambe... certo che sei bella... sono a un passo dal tutto, ci divide solo il suo tessuto... 

ma dopo un mese scopro di avere un’età più consona agli amici che a fare coppia fissa con te. Sono disorientato, mi piace passare il mio tempo con te, anche se non porta a molto di più di poco, ma mi piacerebbe passare più tempo in giro, fare nuove conoscenze. Non ho detto nuove ragazze, sono sempre stato fedele, almeno fino a quel momento. Ne parlo con l’amico-vicino-di-casa, che ovviamente la vede come me - e come, se no? - usciamo io, lui e altri due, andiamo alla festa di un paese vicino in motorino. Ma avrei dovuto uscire con te. In realtà non era previsto e, forse, telefonarti a casa ancora non potevo. Ma l’ho fatto: sono andato in giro senza di te. Poi sono tornato, ti ho cercata con i miei sensi di colpa e ti hanno trovata loro prima di me, eri ancora più bella; sarà stata la tristezza che ti leggevo negli occhi, non me la sono sentita di troncare, ho lasciato che mi abbracciassi, ti ho reso il tuo calore in un abbraccio che forse stavi cercando, ma mi era sembrato più di pietà che d’amore. Almeno per me. La sera dopo ti ho lasciata. Non credo che tu abbia pianto, ma certo te lo si leggeva in faccia che allegra non eri. Non capivo neppure me stesso, come volevi che capissi te? Dopo un paio di giorni, sono entrato nell’ordine di idee che niente è più aleatorio del girovagare senza meta, tra quelli che dicono di esserti amici, ma non sanno - o non possono - esserlo davvero. Ti cerco, allora, perché l’unico riferimento che mi avvicini alla realtà, a quello che sto cercando da sempre è nascosto in te. Ti chiedo scusa, l’accetti e si torna a bordo per un altro viaggio. Ma dopo solo una settimana, sento un senso di fastidio che mi attanaglia il cuore quando sono con te. Non sono farfalle, sembrano pietre. E’ meglio smettere. Ti lascio di nuovo. L’intenzione, questa volta, è per sempre. Ma, inutile dirlo, dopo una settimana siamo di nuovo insieme. Tu mi parli poco, eviti l’argomento, non mi aiuti a parlare di ciò che mi succede quando sono con te e ancor più quando non ci sei. Non mi dici cosa pensi di me. Io che ti chiedo se provi ancora qualcosa per me, tu che mi rispondi “cavolo se provo qualcosa per te”; vedo i tuoi occhi guardarmi con un velo di tristezza e di perdono e poi chiudersi sopra le nostre bocche. Questo è amore? Puff.

Avevamo trascorso la serata insieme, con un’altra coppia della compagnia. L’altra ragazza era la tua migliore amica, lui non era altrettanto per me: lo tolleravo e basta, pure a fatica.” Riprendiamo da qui. Ti ho lasciata davanti casa, sei andata a letto. L’amico-vicino-di- casa ha passato la serata con gli altri, la tua migliore amica con loro, il suo ragazzo non era uscito. La mattina dopo, domenica, io avevo una battuta di pesca con mio padre - almeno in quello c’era -, l’amico-vicino-di-casa doveva aiutare il suo in giardino. Ma alle 14,00 ero pronto ad aspettarti davanti alla stazione per prendere il treno delle 14,34 per la città. Mi hai fatto perdere il treno, alle 15,00 ancora non c’eri. Stavo per chiamarti a casa, maledetta educazione, non l’ho fatto. Mi sono solo avvicinato alla cabina a ovest della stazione, penso che da lì a poco ti avrei chiamata. Invece ti ho vista arrivare. Non ti sei lasciata baciare come al solito, ti ho detto “che è successo? Abbiamo perso il primo treno, ma ce ne sarà un altro. Andiamo?” - “ho qualcosa di meglio da proporti - hai detto - ti lascio. Così il giochetto di far vedere a tutti che puoi prendermi e lasciarmi quando vuoi non funziona più.” E te ne sei andata. Ero frastornato, non riuscivo a capire. Salgo le scale del passaggio pedonale, e vado verso casa anche io. Temporale forsennato nel pomeriggio. Telefono all’amico-vicino-di-casa, gli spiego, si mette a ridere - “che cazzo ridi? Non c’è niente di divertente” - intanto il temporale ci lascia e io esco a cercarti: non mi sta bene accettare le cose senza capirle. Cammino in mezzo a un disastro di foglie e rami spezzati dal vento e dalla grandine, una tromba d’aria ha scaricato tutta la sua forza sugli alberi che un po’ mi somigliavano, scompigliati come poteva essere il mio cervello irrorato dai 150 bpm del cuore, che per l’occasione mi si era trasferito in gola. Ti trovo in centro, intenta a passeggiare con l’amico- vicino-di-casa (?????). “Ti devo parlare”, ma l’amico-vicino-di-casa avanza pretese e si appella a diritti inesistenti di ordine di arrivo e si becca un vaffanculo, che potevi anche risparmiargli - anche se se l’era meritato - che però ha ottenuto l’effetto sperato: si è allontanato. 

Finalmente io e te eravamo di nuovo noi. Mi hai spiegato che qualcuno ti aveva riferito cose che avrei detto in tua assenza, circa il fatto che di te non mi interessava nulla, solo quello che facevamo quando eravamo insieme e quando mi andava, perdipiù. Inoltre che la persona che te l’ha riferito, non ti mentirebbe mai. “Allora mi dici chi è stato a dirti queste cose così cattive, perché io non ho mai detto niente di simile nei tuoi confronti, non le penso, non è così, non sono così!” - “non posso dirtelo” - “non credi più a me? allora non c’è più niente da fare?” - “lasciami qualche giorno per pensarci, mi ha fatto molto male”. Ritorno a casa, le zanzare sembravano più fameliche di prima del temporale, solo io speravo che le uccidesse tutte? La mattina dopo non sono uscito, non sapevo come comportarmi. Il pomeriggio il citofono mi dice che l’amico-vicino-di-casa vuole che scenda per parlarmi. “Volevi sapere chi ha detto quelle cose? Sono stato io, perché non sopportavo di vederti trattare male quella ragazza” - “credo che tu l’abbia fatto per liberarti la piazza, io non penso queste cose di lei, ma a giudicare da ieri sera, ti è andata molto male”. In quel momento mi è morto qualcosa dentro, qualcosa che ero convinto esistesse: l’amicizia di un vero amico. A distanza di tempo devo riconoscere che l’idea di perderti mi faceva molto male, altrettanto me ne ha fatto essere tradito dall’unica persona che pensavo non l’avrebbe mai fatto; magari tu si, nel tempo, ma lui non credevo proprio. E questo episodio ha condizionato tutta la mia vita, da lì in avanti, nei miei rapporti con la fiducia nelle persone, le persone stesse e gli amici. Riecco il noi, l’io e te perduto che ritorna, come "io e te"  torna a essere la nostra canzone.

"Memory 3"

-Oro placcato-

-Dio, quanto è bello che tu sia entrata nella mia vita e quanto è stato difficile riuscire a

chiuderti la mia porta alle spalle per non farti più uscire-

"Ti avevo seminata ovunque, perché non ci fosse luogo sulla Terra o stagione o momento della giornata presente e futura che non potesse che parlarmi di te."

In questa auto-pozione c’era l’immagine della prima neve pestata al mattino quando, ancora buio, camminavo verso il lavoro - che fortuna lavorare e abitare nello stesso paese e non aver necessità di prendere un mezzo per spostarsi -, le immagini del vento caldo delle montagne in inverno, i profumi

dei platani del viale, del tuo profumo, del mio profumo, la neve, la pioggia, le foglie, le luci della città, le caldarroste di Natale e poi musica liquida a riempire ogni spazio; per ogni istante con te, ho cesellato un corollario di ricordi ed emozioni: una musica, un cielo, una pioggia, un vento, un profumo, una sensazione, una semplice emozione da richiamare ogni volta che sarei tornato a pensarti. Tu eri di me, per me, in me. Non potevo sottrarmi da quell’incantesimo. Gli scantinati del palazzo reale per l’aria fresca in un luglio impietoso, i viali arrugginiti, gli antichi borghi, un regalo, un sospiro, una mano furtiva in uno scompartimento buio sul treno del ritorno, un film, un cinema e una valanga di baci in galleria, la casa libera e un’incursione pomeridiana che i miei non vanno mai via e i tuoi neppure e una valanga di cose che non posso dire; un viaggio in Horizont fino all’abazia sul sedile di dietro, per noi un divano inaspettato sotto i finestrini appannati e la pioggia fuori, evado dalla disco per il primo capodanno a casa tua, per me sembrava fatta. La neve stanca di una domenica di metà febbraio, il 13, mentre i 64 avrebbero potuto essere 66 e una festa di compleanno anticipata che ci salverà la vita - saremmo stati insieme per sempre -.

il martedì grasso, il 15, la sfilata sotto le stelle, la scenataccia, la gelosia, le remissioni, le ammissioni di colpa che colpa non era, un tentativo di riprendere fiato dopo la corsa per raggiungere i tuoi passi, mentre cerchi di scappare da me, da allora in poi 31 giorni spesi tra telefono, poche uscite e tante illusioni, tu che c’eri ancora, ma solo dalle spalle in giù, una cabina del telefono contro il tramonto di una orribile giornata, io che lascio il lavoro per starti vicino, te lo dico e mi regali un silenzio troppo profondo per essere vero, io che ti chiedo cosa c’è, tu che mi rispondi “niente”, ma se il niente non esiste allora hai qualcosa, “non mi ami più?” - smettila di farmi domande, non mettermi le parole in bocca” avresti dovuto dirmi - “forse” (...) “proviamo a non vederci per un po’, ho bisogno di capire se mi manchi davvero... tu ci sei sempre...” - “cosa faccio io senza di te, come faccio io senza di te... ti prego...” - la tua caratteristica migliore è che, anche a costo di soffrirci, anche se riconosci di aver sbagliato, non torni indietro, ma le spese le ho fatte io -, un pomeriggio da mio fratello, meglio fermarmi a dormire, così sarò distante dalle tentazioni e da te, ma il giorno dopo ero sprofondato in un divano di sofferenza, bocca chiusa, rimanevano aperti gli occhi per le lacrime, il naso per il fazzoletto col tuo profumo e le orecchie per sentire la nostra canzone che girava all’infinito, il disco consumato ormai tornava indietro da solo all’inizio da ore, lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato... “Non cercarmi, ti cercherò io quando avrò capito”, ma dopo una settimana eri sparita nel nulla. Anche la resistenza ha i suoi limiti, una ventosa (Fenom) domenica di marzo, il 27, scendo in centro, ti cerco e ti trovo, ti avvicini, ti fermo con una mano alzata “io non posso andare avanti così, sono venuto a restituirti la tua libertà” - “perché sei venuto... - mi avevi tirato addosso un gesto di stizza e delusione insieme e avevo capito di aver commesso un altro errore, forse il più grave - avrei capito, ti avrei chiamato io, chi ti ha detto che io la voglia indietro, la mia libertà?” - “mi sembrava di impazzire senza vederti e sentirti, non ce la faccio più... torniamo insieme, riproviamo...” - “no, non sono pronta, ci vediamo domani” - “domani pomeriggio, va bene? ma ci sarai?” - “ci sarò”. 

Camminavo verso casa tua, il vento tiepido del giorno prima non era riuscito a cancellare le tracce della neve, quella ammucchiata all’ombra, l’aria era elettrica, pizzicava il naso, il sole era freddo, c'era presagio di neve nell'aria; le temperature del giorno prima, infatti, erano crollate di oltre la metà. Anche il percorso che abbiamo fatto a piedi era diverso dal solito, come per commemorare il nuovo che avanzava in mezzo a noi per dividerci, noi che non eravamo più l’ io e te che credevo indivisibile; tenevi le tue mani in tasca, la tua bocca sigillata sul mio ricordo dei tuoi baci, non c’era più calore, un vento gelido e impenetrabile riempiva lo spazio tra di noi, love should be so kind... rieccoci davanti a casa tua - è incredibile come il tempo del giro di una città fosse così breve e veloce -; alla panchina di cemento che conservava l’inizio della nostra storia, ti sei fermata, mi sono fermato, eri più bella che mai, “allora, si o no?” - “No”. Ti ho guardata camminare fino al fondo della strada, in cui hai girato l’angolo senza voltarti. Per un attimo ho sognato di vederti ricomparire dalla via trasversale correndo verso di me. L’ultimo ricordo che ho di te è la tua schiena.

Quando avevo realizzato che era inutile e umiliante stare lì a guardare una via vuota, ho mosso i miei passi verso la grande piazza centrale del paese. Finalmente potevo fumare, non potevi più rimproverarmi nulla, ho pensato recuperando il pacchetto di sigarette nascosto nel calzino - le avevo nascoste li, tanto sapevo che non mi sarei più spogliato - ho attraversato la piazza in diagonale, passando tra le auto, con un senso di soddisfazione per essermene fregato di te e delle tue paturnie, che non volevi passarci per i tacchi, principessa sul pisello; ho percorso tutta la via centrale, stupendomi nel leggere la normalità di un giorno qualunque sul viso delle persone, che non condividevano la mia tristezza e non vedevano l'abisso che mi si era aperto sotto i piedi; ho percorso la strada verso casa accelerando il passo, perché le lacrime non arrivassero prima di me; il vento soffiava freddo muovendo foglie, posando i primi fiocchi di una nevicata che sarebbe finita da lì a poco sull'ultima neve ancora a terra, nei luoghi d'ombra, coprendo un giorno, 270 giorni, facendomi lacrimare gli occhi... tanto meglio per loro, sarebbero già stati allenati per i giorni a venire. Era il 28.

Memory_4

-Dopo il 28, cosa c’è? il 4.-

-Dio, quanto è difficile respirare senz’aria, bere senz’acqua, guardare senza luce, sfamarsi senza pane.-

Tu non eri più di me. Un amico, a cui l’avevo raccontato giorni dopo, mi aveva risposto “l’ho saputo... è così strano pensare che non siete più insieme... sembravate una delle coppie più perfette del paese... Adesso lei dov’è?” ed era strano non saper rispondere a una domanda che conteneva il tuo nome, perché fino a quel momento, di te, io sapevo tutto: con chi eri, cosa stavi facendo e, soprattutto, dov’eri. Da quel momento, non potevo più reclamare diritti su di te. La domenica successiva era Pasqua, era d’aprile, il 3. Ma era anche il tuo compleanno e non potevamo festeggiarlo insieme - in effetti non l’avevamo mai fatto -. Dio parve volerti punire per quello che mi avevi fatto, regalandoti un compleanno e una Pasqua all'insegna della pioggia mista neve, del vento e persino di un temporale fuori stagione. A farti un regalo ci ha pensato il resto della compagnia: Pasquetta in montagna! Ma tu non potevi venire, causa parenti dalle tue lontane origini, e nessuno si è degnato di rimanere con te. Io tantomeno, non lo avresti meritato.

Avevamo lasciato la pioggia uggiosa giù da te. Lì c'era un bel sole tiepido. E io non sono rimasto con le mani in mano, ho subito cercato di trovare un chiodo in grado di spingerti fuori dal buco del mio cuore in cui eri sprofondata - e non riuscivo proprio a toglierti, neanche così. Anzi, dal giorno dopo avevo lo stesso chiodo ancora più in fondo e un altro inutile che non sapevo come buttare -. La domenica dopo, pareva una stagione dopo per il tepore che già si riversava in strada, il 10, ti ho aspettata davanti alla chiesa, per onorare i 727 giorni che ci separano. Quando sei uscita, ti sei diretta verso di me e mi hai baciato sulla bocca. Lapsus freudiano, tranquillo (babbeo, perché gliel’hai permesso?). Da quella domenica, ogni volta che mi incontravi, mi salutavi così, ma di tornare insieme non se ne parlava. Alla fine, a forza di insistere, un “lasciami in pace” me lo sono beccato anche io, proprio in mezzo alla piazza. Forse avevo capito il succo di un discorso poco esplicito, allusorio o troppo prolisso; avevo colto un'intenzione non rivelata apertamente? Avevo anche capito che era meglio togliersi dai piedi. Come potevo farlo, se eravamo nella stessa compagnia? Amici da dividerci, non ce n’erano. Amiche? Tanto meno. E tornavo a essere socialmente appiedato, come agli inizi di questa storia. Arriva la cartolina precetto e i tre giorni di speranza che non mi riformassero per qualche motivo. Nessun problema, quel mese hanno poi preso cani e porci, nel senso buono della parola ovviamente. La destinazione nell’esercito non mi avrebbe garantito di poter andare così distante e così a lungo da te, per come immaginavo di averne bisogno. La brillante idea è stata scegliere le onde del mare, piuttosto che i muli e le scalate, o anche le ali o le corse con la tromba. 18 i mesi passati, ma tutti i weekend ero a casa e non potevo non incontrarti. Ti telefonavo e ti scrivevo, mi rispondevi alle lettere, ma di persona, eri sempre più trasparente. Un giorno di licenza - ricorda un po’ Porta Portese di Baglioni - ti trovo con un amico della compagnia, uno dei più recenti a esserci entrato a far parte, e ho finalmente capito.

Una cosa ancora, ricordi 26101994

Infine

-Tirando le somme-


...


8 mesi e 27 giorni


§


= 38 set + 4 gg


§


= 270 gg


§


= 6480 h


§


= 388.800 min


§


= 23.328.000 sec...


...di noi...


§



...Puff.

"... e ricordo il tuo bel viso ed il tuo sorriso nel tuo essere felice ... e nel tuo essere felice hai cercato a lungo, forse troppo, una promessa nei miei sguardi. Ma lo sguardo non sa mentire, non ho potuto nascondere quelle verità che ora sembro voler confessare scrivendotele, come se fossi certo che mi leggerai ... era svanito il tuo viso, l'ho ritrovato in una foto e ho rivisto il tuo sorriso, i tuoi occhi e le mie colpe ... ho riprovato l'angoscia del non essere riuscito a tenerti con me. Eravamo dietro a noi stessi, in un angolo di primavera che aveva solo sette giorni e sapeva ancora di te, di brina, di nebbia ... Era un lunedì qualsiasi, un lunedì in cui il mondo si risveglia, si alza e inizia a lavorare; mentre il nostro amore si sdraiava sul ghiaccio delle lunghe ombre, guardavo le nuvole di fiato uscire dalle tue labbra socchiuse e provavo a contare le parole che nascondevi in tasca e sussurravi, come per non farmi male. Avevi preso le tue mani con te, il tuo profumo era tagliente come una lama: l'avevi fatto apposta, non era lo stesso di sempre ... il nuovo che avanza, ho pensato, è un modo come un altro per dirmi "da domani, ma che dico, da stasera vita nuova" ... ero un paio di scarpe scomode che ti saresti tolta di lì a poco per buttarle via e non indossarle più. E così è stato. La tua coerenza a scapito di tutto l'ho sempre temuta: e ora giura di non avermi mai amato ..."

La prima versione creata da CHAT-GPT4:

Era una calda estate, i giorni si allungavano e le emozioni si intrecciavano come fili invisibili. Marco e Giulia, due adolescenti, si erano conosciuti durante una festa di fine anno scolastico. Lui, timido e insicuro, aveva subito notato la sua risata contagiosa e i suoi occhi scintillanti. Lei, vivace e spensierata, aveva trovato in lui un rifugio dai turbamenti dell’adolescenza.

I primi mesi furono un susseguirsi di momenti rubati tra i banchi di scuola e le panchine del parco. Marco, però, non riusciva a fidarsi completamente. Aveva paura di aprirsi troppo, di lasciarsi andare. Così, quando le cose sembravano andare troppo bene, lui si allontanava. Giulia, innamorata, lo aspettava sempre. Riprendevano la loro relazione, solo per vederla spezzarsi nuovamente.

Il tempo passava, e Marco si rendeva conto di quanto fosse fortunato ad avere Giulia al suo fianco. Ma il timore di perderla lo faceva agire in modo irrazionale. Lui, che aveva sempre cercato di proteggerla, finì per ferirla. Giulia, stanca di questo gioco di alti e bassi, prese una decisione: lo lasciò.

Marco rimase solo, con il cuore spezzato. Si innamorò perdutamente di Giulia, ma era troppo tardi. Lei aveva già voltato pagina. Marco, nel tentativo di farla tornare, si allontanò ancora di più. Le telefonate non venivano più ricambiate, le lettere restavano senza risposta.

Gli anni passarono, ma il ricordo di Giulia rimase intatto. Marco imparò a convivere con quella nostalgia, con il rimpianto di non averla tenuta stretta quando ne aveva avuto l’opportunità. Si chiedeva spesso cosa sarebbe stato se avesse agito diversamente, se avesse avuto il coraggio di amare senza riserve.

Il tempo, però, non cancella tutto. Marco portava ancora con sé il profumo dei capelli di Giulia, il suono della sua risata, il calore delle sue mani. Aveva imparato che l’amore adolescenziale può essere travolgente, ma anche fragile. E che, a volte, le paure possono distruggere ciò che di più prezioso abbiamo.

Così, Marco continuò la sua vita, cercando di non fare gli stessi errori. Ma ogni tanto, quando il vento portava con sé l’odore dei fiori di campo, lui chiudeva gli occhi e si ritrovava a passeggiare con Giulia tra le dune di sabbia, mano nella mano, senza paura del futuro. E in quel momento, il ricordo di lei diventava eterno.

La seconda versione creata da CHAT-GPT4:

In una piccola città avvolta dalla dolcezza delle colline, vivevano due adolescenti, Marco e Giulia. Marco era noto per la sua forza, non solo fisica ma anche di carattere. Sempre sicuro di sé, era il tipo che non si voltava mai indietro. Giulia, invece, era come il vento di primavera, leggera e incostante, ma con una forza nascosta che solo pochi potevano vedere.

All’inizio, la loro storia sembrava un gioco di potere. Marco decideva, e Giulia seguiva. Lei tornava da lui ogni volta che lui lo desiderava, come un’onda che ritorna sulla spiaggia sotto il richiamo della luna. Ma quando Giulia decise di lasciare Marco, qualcosa dentro di lui si spezzò. La sua apparente forza si rivelò fragile come vetro.

Marco iniziò a innamorarsi perdutamente di Giulia, con un’intensità che lo sorprese. Quando lei gli diede una seconda possibilità, sembrava che tutto potesse andare per il meglio. Tuttavia, l’amore di Marco divenne un’ossessione, un bisogno asfissiante che soffocava la libertà di Giulia.

La storia tra Marco e Giulia finì nel momento in cui lui non riuscì più a dare spazio al respiro di lei. Giulia, con il cuore pesante ma con la certezza di fare la scelta giusta, lasciò Marco definitivamente. Fu allora che Marco comprese la vera forza di Giulia, una forza che non era mai stata sua, ma che era sempre appartenuta a lei: la forza di essere libera.

In breve

L.A.M.